Normativa condominio
La Normativa e il Condominio
Il costruttore... padre di famiglia
La proprietà 'conformata' nel condominio e la normativa sulle distanze legali
Nell’ambito della disciplina condominiale, l’espressione “padre di famiglia” rimanda direttamente all’attività dell’amministratore pro tempore, ed ai canoni di diligenza che il medesimo deve rispettare nell’espletamento del suo incarico, come una giurisprudenza assai ripetuta da sempre evidenzia (giusto per citare le più recenti, tra le moltissime, si vedano: Trib Monza 18 agosto 2016, n. 2279, per la quale “ai sensi dell’art. 1710 c.c., l’amministratore del condominio è tenuto a eseguire gli obblighi contrattualmente assunti con la diligenza del buon padre di famiglia, ovverosia quella che è lecito attendersi da qualunque soggetto di media avvedutezza e accortezza”, nonché, per le pronunce di legittimità, in tali esatti termini, Cass. 27 maggio 1982, n. 3233).
Tuttavia l’applicazione di tale “parametro” non si limita al riferimento col soggetto incaricato della gestione delle parti comuni e della prestazione dei servizi finalizzati a consentire la concreta vivibilità dell’edificio, ma può avere più ampie, e forse anche più rilevanti, applicazioni.
Un primo rapido richiamo può rinvenirsi nella disciplina che scaturisce dall’interpretazione dell’art. 1134 c.c. (in tema di rimborso di costi anticipati dal singolo condomino), in base alla quale sono urgenti le spese che appaiano indifferibili allo scopo di evitare un possibile, anche se non certo, nocumento alla cosa comune, con valutazione effettuata secondo il criterio, appunto, del buon padre di famiglia (in tal senso, Cass. 3 settembre 2013, n. 20151).
Una seconda ipotesi, inoltre, si colloca nell’ambito dei rapporti tra condomini che si mostrano affini a quelli che vengono denominati “di vicinato” e che coinvolgono le interferenze che le proprietà esclusive hanno sia tra di loro, sia in rapporto con l’insieme dei beni e degli impianti comuni.
Il fenomeno rivela una stretta attinenza con la costituzione del condominio, che, com’è noto, rappresenta il momento in cui viene ad esistenza l’ “ente di gestione” (dal punto di vista soprattutto giuridico) e che, di conseguenza, determina l’applicazione di tutte le regole previste dal codice civile per la relativa fattispecie.
In merito a tale aspetto, appare opportuno operare qualche cenno riguardo alle vigenti coordinate normative, premettendo che due sono le prospettive da analizzare (quella della realtà fattuale, e quella della realtà giuridica).
Dal punto di vista “fisico” (vale a dire, della concretezza della reale situazione di fatto), si ritiene che un primo requisito (perché si abbia, giuridicamente, un condominio) è dato dall’effettiva costruzione dell’edificio, ovvero di un fabbricato diviso per piani orizzontali (cfr. Cass. 27 aprile 1979, n. 2448, per la non applicabilità delle norme nel caso di più separati edifici divisi tra loro da una parete verticale), precisandosi, tuttavia, che il condominio può sussistere anche qualora vi siano più porzioni di piano in proprietà esclusiva disposte in senso orizzontale (cfr. Cass. 19 settembre 1968, n. 2955; e più recentemente, per l’ipotesi delle c.d. “ville a schiera”, Cass., 18 settembre 2015, n. 18344; Cass., 4 novembre 2010, n. 22466; Cass. 18 aprile 2005, n. 8066; Trib. Milano 14 giugno 1993; Cass. 12 marzo 1973, n. 697). In particolare, la costruzione può considerarsi terminata a prescindere dal fatto che siano ancora da realizzare alcuni accessori della stessa (c.d., “finiture” – cfr. Cass. 26 gennaio 1982, n. 510) e indipendentemente dal rilascio della certificazione di abitabilità da parte del competente Ente locale (cfr. cit. Cass. n. 510/1982); in base agli stessi principi, non è necessario un atto di formale “costituzione” (Cass. 21 ottobre 1978, n. 4769), né che siano stati preventivamente approvati il regolamento condominiale o le tabelle millesimali (cfr. Cass. 3 gennaio 1977, n. 1; nonché, per le “ricadute” sull’attività dell’assemblea, che rimane valida, Cass. 6 giugno 1974, n. 1664).
Dal punto di vista giuridico, un secondo requisito è dato dalla distribuzione della titolarità del diritto di proprietà sulle unità immobiliari ricomprese in detti piani orizzontali a favore di almeno due soggetti; precisandosi che tale attribuzione di proprietà separata può avvenire non solo con un ordinario atto notarile pubblico (o scrittura privata autenticata, sempre dal notaio) ma anche in base ad una semplice scrittura privata idonea al trasferimento ex art. 1350 c.c. (Cass. 2 febbraio 1974, n. 299); il tutto a prescindere dalla tipologia negoziale utilizzata (cfr., Cass. 29 luglio 1981, n. 4857 per l’idoneità della permuta; App. Venezia 17 febbraio 1958 per quella del testamento; e Cass. Sez. Un. 5 luglio 1982, n. 4001 per quella ancora dell’atto di divisione di cosa futura).
Come si è visto, il fenomeno (e il momento) della costituzione è particolarmente rilevante in quanto non solo determina la vera e propria “nascita” del condominio, ma anche perché ne fissa il momento temporale (una specie di riferimento “ante/post”) rispetto al quale dovrà porsi la valutazione dell’eventuale esistenza di (un complesso di) diritti e/o di obblighi a favore e/o a carico dei condomini.
Ora, la circostanza che il “condominio” venga ad esistenza in tal modo puntuale (cioè, preciso e determinato sia di fatto, sia giuridicamente) determina degli specifici (ed insuperabili) effetti anche in altri ambiti, i quali – per quello che qui ci interessa – coinvolgono la figura del “costruttore” qualificata in termini di “padre di famiglia” (che, in questo specifico caso, perde la qualifica di “buono”).
E’ risaputo, infatti e per esempio, che all’interno della disciplina condominiale c’è stata (e c’è) un’accesa discussione sull’applicabilità alla fattispecie della disciplina delle c.d. “distanze legali” di cui agli artt. 873 e s.s. c.c. (sul punto, imprescindibile è il richiamo a quanto acutamente evidenziato da R. Triola, “Condominio e distanze legali”, in “Il nuovo condominio”, Torino, 2013, pag. 362 e seg.).
Secondo tale disciplina codicistica, sussistono alcune tutele/cautele e, soprattutto, delle limitazioni all’attività dei singoli (incrementativa e/o modificativa della proprietà privata), qualora venga coinvolto l’ambito delle analoghe prerogative del proprietario “vicino”.
Da qui l’imposizione di una distanza minima tra costruzioni (art. 873 c.c.), rispetto alle condutture (art. 889 c.c.), agli alberi (art. 892 c.c.), alla realizzazione di luci (aperture che non consentono l’affaccio – cfr. art. 901 c.c.), di vedute (le aperture che comunemente vengono denominate “finestre”, vale a dire con facoltà di affaccio – cfr. art. 905 c.c.) e quant’altro.
Tuttavia, tali cautele/limitazioni presuppongono (per come sono strutturate nel codice) una situazione ben precisa, che consiste nel fatto che, date per assodate le legittime proprietà separate (e contigue), già perfezionatesi in precedenza per quanto riguarda la titolarità, ad un certo punto sopravviene un “cambiamento” (modificativo e/o incrementativo) che pone in essere un’alterazione dello stato di fatto (si direbbe, dei luoghi) e che conseguentemente impone il rispetto delle predette cautele/limitazioni.
Se, però, all’interno dell’edificio in condominio il “cambiamento” avviene – o meglio, è già avvenuto – in precedenza all’originaria attribuzione separata delle proprietà esclusive, qual è il trattamento giuridico che ad esso deve essere riservato? In altri termini, le cennate cautele e/o limitazioni possono ugualmente applicarsi ed essere vincolanti, addirittura fino al punto di comportare la rimessione in pristino con eliminazione dell’opera pregressa effettuata in loro violazione?
La questione, per quanto “di nicchia”, è stata efficacemente risolta da una serie di pronunce che vale la pena di compendiare per quanto precisamente si sono preoccupate di analizzare tale situazione giuridica, la quale, sebbene abbia caratteristiche di evidente peculiarità, nel concreto può invero essere riscontrata in un numero assai rilevante di edifici.
Di tali arresti, è utile fornire un sintetico catalogo, precisandosi che, mai come in questo caso, l’aspetto fattuale della controversia è assai rilevante a livello interpretativo, proprio perché esprime e rappresenta l’eccezionalità della fattispecie (in termini di applicazione, o meno, della normativa). Detto in altro modo, l’interprete (o l’operatore) che tiene presente non solo i principi affermati da tali pronunce ma anche le situazioni di fatto concretamente analizzate, è in grado di meglio comprendere qual sia l’esatta portata del fenomeno considerato, nonché le ragioni per cui questo viene disciplinato diversamente (o, meglio, in via d’eccezione) rispetto alla regola generale.
Sintetizzando la giurisprudenza in argomento, secondo un ordine temporale a ritroso, vanno specificamente richiamate:
~ Cass. 7 aprile 2015, n. 6923, la quale si è occupata del caso di un edificio realizzato da una cooperativa edilizia (originario unico proprietario dell’edificio) all’interno del quale, in precedenza alla costituzione del condominio (che, in tale ipotesi, avviene con l’assegnazione degli appartamenti e con il relativo acquisto in proprietà al momento della stipula del mutuo individuale) era stata realizzata un’apertura di alcune vedute, con “asservimento” delle proprietà esclusive viciniori;
~ Cass. 16 novembre 2012, n. 20218; riguardante la facoltà di accesso (esercitabile anche con automezzi) sulla/nella proprietà esclusiva (area e relativa rampa) in cui, tuttavia, si trovavano allocati alcuni impianti comuni (centrale termica, autoclave ed impianto di sollevamento delle acque luride);
~ Trib. Roma 14 gennaio 2010, n. 783, che ha affrontato l’ipotesi dell’apertura di una porta di accesso nell’androne condominiale, da parte di un’unità immobiliare avente però accesso da un civico adiacente a quello dell’edificio di cui fa parte detto androne;
~ Cass. 13 novembre 1993, n. 11207, relativa ad una servitù gravante su parte del cortile comune (adibita a scivolo e a passo carraio), ed esistente a favore di una unità immobiliare in proprietà esclusiva;
~ Cass. 14 maggio 1990, n. 4117, attinente ad alcune aperture lucifere (nella specie, porta a vetri) collocata tra una chiostrina di proprietà esclusiva ed una scala di proprietà condominiale (da cui riceve luce);
~ Cass. 15 aprile 1987, n. 3723, avente ad oggetto l’installazione di un contatore dell’energia elettrica a servizio della proprietà di un condomino sul pianerottolo di proprietà esclusiva di un (altro) condomino, con facoltà accessoria, per il primo, di accedere a tale spazio sia per le verifiche periodiche, sia per la riattivazione dell’apparecchio in caso di interruzione;
~ Cass. 7 dicembre 1981, n. 6478, inerente ad un’apertura lucifera allocata sul pianerottolo di un edificio in condominio e corrispondente, all’esterno, su una terrazza di proprietà esclusiva di un singolo condomino (ed avente le caratteristiche di una luce irregolare);
~ Cass. 19 gennaio 1985, n. 139, che si è occupata dell’installazione di tubi, destinati al servizio di un appartamento, all’interno del muro comune all’appartamento contiguo.
In tutte queste pronunce, che pervengono compatte all’affermazione della legittimità di tali “pesi” esistenti all’interno dell’edificio, vengono precisati alcuni rilevanti principi giuridici che possono così essere enumerati:
a) prima del momento della sua costituzione (che, com’è noto e pacifico, si verifica con la costruzione dell’edificio ed il trasferimento della proprietà della prima unità immobiliare, con ciò sussistendo almeno due condomini) l’edificio (futuro condominio) è oggetto di un unico diritto dominicale (vale a dire, un’unica proprietà) (Cass. n. 6923/2015);
b) l’assetto di tale edificio (considerato nella fase pre-condominiale) può essere liberamento conformato e modificato dall’unico proprietario, soggetto che non di rado va individuato nel “costruttore” (Cass. n. 6923/2015);
c) i successivi trasferimenti di proprietà riguardanti le unità immobiliari ricomprese in detto fabbricato determinano non solo la costituzione ex lege del condominio (e, quindi, il sorgere della comproprietà sulle parti comuni) ma anche la costituzione di servitù (reciproche) tra le predette unità immobiliari (Cass. n. 6923/2015), fenomeno che si verifica automaticamente (ope legis) (Cass. n. 20218/2012);
d) le servitù così costituite possono riguardare anche l’installazione e/o la presenza di “impianti” (Cass. n. 20218/2012);
e) possono essere costituite anche a favore delle “parti comuni” (Cass. n. 20218/2012; Cass. n. 11207/1993);
f) lo schema giuridico di tale costituzione di servitù è assimilabile a quella per “destinazione del padre di famiglia” prevista dall’art. 1062 c.c. (Cass. n. 6923/2015; Cass. n. 11207/1993; Cass. n. 4117/1990; Cass. n. 3723/1987; Cass. n. 139/1985; App. Milano 11/1/1983);
g) i requisiti giuridici necessari affinché validamente possa verificarsi detta costituzione di servitù ex art. 1062 c.c. sono: 1) la mera esistenza di opere permanenti ed apparenti; 2) l’assenza nei titoli di proprietà di clausole negoziali che espressamente impediscano detto effetto (Cass. n. 6923/2015; Cass. n. 11207/1993; Cass. n. 3723/1987);
h) ne deriva, come ultima conseguenza, che la normativa sulle c.d. “distanze legali” (art. 873, e s.s., c.c.) non si applica alle “opere” eseguite prima della costituzione del condominio (Cass. n. 6923/2015; App. Roma n. 4644/2010; Cass. n. 139/1985) in quanto trattasi di servitù precostituite;
i) del tutto inconferente è il richiamo all’art. 1144 c.c. riguardante “gli atti compiuti con l’altrui tolleranza” in quanto l’utilità fornita dalla “servitù” è duratura e non si tratta di un vantaggio personale e transitorio (Cass. n. 20218/2012; Cass. n. 3723/1987).
Come può vedersi, la situazione giuridica considerata dalle richiamate pronunce viene ricostruita (e, soprattutto, ricondotta ad uniforme disciplina) con evidente chiarezza, ed ancor di più viene posto un importante discrimine tra le opere realizzate prima della “costituzione” del condominio e quelle realizzate dopo, in tal modo bypassando completamente, per le prime, la questione dell’applicabilità della normativa sulle distanze legali che tanta discussione ha suscitato in giurisprudenza.
Va detto, tuttavia, che forse il “diritto vivente”, direttamente sperimentato dai soggetti di diritto, ha per una volta superato le elucubrazioni degli esperti e le pignolerie degli operatori se è vero com’è vero che, nel concreto, assai difficilmente viene sollevata la questione del rispetto delle distanze legali relativamente ad opere “pregresse” che il singolo partecipante (rectius, acquirente) si trova già belle che esistenti al momento del suo ingresso nella compagine dei condomini (rectius, acquisto della porzione immobiliare), circostanza che depone per l’evidente esistenza di un “senso comune” di pacifica accettazione dello status quo consistente nella specifica situazione urbanistica dell’edificio.
In ogni caso, la questione delle servitù relative ad opere realizzate dal “costruttore” prima della vendita delle unità immobiliari, e quindi costituite “per destinazione del padre di famiglia” ai sensi dell’art. 1062 c.c., ci costringe a considerare la specifica particolarità del “condominio”, imponendoci una valutazione delle regole applicabili (previste dal codice per ambiti diversi e non direttamente collegate alla fattispecie condominiale) in termini di meditato adattamento, senza dimenticare che, data detta peculiarità, ne può anche derivare l’inapplicabilità senza che ciò costituisca ragione di “scandalo”.
Non può aversi difficolta ad affermare, infatti, che, al cambiamento di un presupposto fenomenico, una particolare disciplina divenga inapplicabile, allorché – ed è proprio il nostro caso – gli aspetti fattuali siano fondamentali per l’applicazione della norma; né può invocarsi la sussistenza di un qualche pregiudizio sulla tutela degli interessati perché se la normativa sulle distanze è finalizzata a difendere il proprietario che risulta limitato dalle attività del vicino, nel caso delle opere pregresse alla costituzione del condominio, la tutela comunque sussiste ed è rappresentata non dalla facoltà di richiedere la rimessione in pristino (cioè l’eliminazione della violazione) ma dalla possibilità di valutare preventivamente la situazione di fatto e di diritto alla quale eventualmente poi si parteciperà.
In altri termini, la tutela fornita dalla legge non è in questo caso successiva (dopo l’asserita violazione) ma preventiva, non potendosi, quindi, gli interessati lamentare di una situazione giuridica alla quale hanno partecipato volontariamente, avendo tutte le possibilità di valutarne preventivamente portata e consistenza.