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Normativa condominio

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La Normativa e il Condominio

decoro edificio

Anche la veranda posta nella facciata interna altera il decoro dell'edificio?

Di recente, dalla Corte di Cassazione (v. sent. n. 1718 del 29 gennaio 2016) ci perviene un'importante puntualizzazione riguardo allo 'scivoloso' tema del decoro architettonico


LA FATTISPECIE SOTTOPOSTA ALL’ESAME DELLA CASSAZIONE

Di recente, dalla Corte di Cassazione (v. sent. n. 1718 del 29 gennaio 2016) ci perviene un’importante puntualizzazione riguardo allo “scivoloso” tema del decoro architettonico, la cui lesione costituisce il limite invalicabile sia agli in­terventi edificatori sulla cosa comune realizzati dal singolo ai sensi dell’art. 1102 c.c. (sotto il profilo dell’alterazione della destinazione), sia alle innova­zioni deliberate dall’assemblea ex art. 1120, comma 4, c.c. (sia pure con i quorum di cui all’art. 1136, comma 5, c.c.), sia infine alle iniziative del singolo nell’unità immobiliare di sua proprietà “ovvero nelle parti normalmente desti­nate all’uso comune, che siano attribuite in proprietà esclusiva o destinate al­l’uso individuale” (come recita il novellato art. 1122 c.c.).

Nella specie, i giudici di merito avevano rigettato la domanda, proposta da un condomino, volta alla rimozione di una veranda realizzata da un altro con­domino, motivando tale convincimento in quanto tale costruzione non alterava il decoro architettonico dell’edificio, poiché la stessa “non era posta sula fac­ciata principale dell’edificio condominiale”.

Il condomino attore aveva proposto ricorso per Cassazione avverso tale de­cisione, rilevando che l’alterazione del decoro potrebbe riguardare anche una facciata interna e che sarebbe da riguardare con attenzione nel caso, come quello in esame, in cui la facciata intaccata coinvolgeva la maggior parte degli appartamenti del ricorrente, il cui decoro sarebbe stato “compromesso per in­tero”.

La doglianza è stata ritenuta pienamente fondata dai giudici di Piazza Ca­vour.

IL CONCETTO DI DECORO ARCHITETTONICO

Si è, innanzitutto, premessa l’irrilevanza del precedente degli stessi giudici di legittimità (v. Cass. 7 febbraio 1998, n. 1297, in Rass. loc. e cond., 1998, 269), in base al quale era stato “escluso il carattere lesivo di una veranda rea­lizzata da un condomino sulla terrazza a livello del proprio appartamento nella parte retrostante del fabbricato”, in quanto ciò non implica che, sempre ed in ogni caso, sia legittima la creazione di verande in corrispondenza di facciate interne; la stessa sentenza citata e le successive hanno rimesso al giudice di merito il compito di stabilire volta per volta se in concreto ricorra il denunciato danno all’aspetto della facciata, esterna o interna che sia, ditalchŽ “non costi­tuisce motivazione appagante limitarsi a rilevare semplicemente che trattasi di facciata interna”.

In proposito, anche di recente, vi sono state pronunce relative a facciate interne, ed è risalente l’affermazione secondo cui per “decoro architettonico del fabbricato”, ai fini della tutela prevista dall’art. 1120, ultimo comma, c.c., deve intendersi l’estetica dell’edificio, costituita dall’insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (v., tra le altre, Cass. 31 luglio 2013, n. 18350, in Foro it., Rep. 2013, voce Comunione e condomi­nio, n. 210, riguardo all’installazione di una canna fumaria; Cass. 11 maggio 2011, n. 10350, id., Rep. 2011, voce cit., n. 196, aggiungendo che la relativa valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, ove non presenti vizi di motivazione; Cass. 14 dicembre 2005, n. 27551, id., Rep. 2005, voce cit., n. 205, la quale ha ritenuto che, in conseguenza della costruzione realizzata dal convenuto in aderenza alla facciata del fabbricato, ne era stato completamente alterato lo stile architettonico, che era caratteriz­zato dall’esistenza al piano terra di un porticato con grossi archi, risultato in­globato dal manufatto de quo).

Nel caso concreto analizzato da Cass. 19 giugno 2009, n. 14455 (in Riv. giur. edil., 2010, I, 88), si è statuito che non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato alterato dall’innovazione abbia un particolare pregio artistico, nè rileva che tale decoro sia stato già gravemente ed eviden­temente compromesso da precedenti interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano alterate, in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria specifica identità (nella specie, si era confermata sul punto l’impugnata sentenza che aveva ritenuto dimostrata la violazione del decoro architettonico in un caso in cui la trasformazione in veranda dell’unico balcone esistente al piano ammez­zato aveva “spezzato il ritmo” proprio della facciata ottocentesca del fabbri­cato, che nei vari piani possedeva un preciso disegno di ripetizione dei balconi e di alternanza di pieni e vuoti, non potendosi trascurare, a tal fine, anche la rilevanza delle caratteristiche costruttive della veranda ed il suo colore bianco brillante, contrastante con le superfici più opache del circostante edificio).

Nella stessa lunghezza d’onda, si è posta, sempre di recente, Cass. 16 gen­naio 2007, n. 851 (in Foro it., Rep. 2007, voce Comunione e condominio, n. 159), la quale ha avuto modo di ribadire che, in tema di condominio negli edi­fici, per “decoro architettonico” deve intendersi l’estetica del fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità, sicchè nessuna influenza, ai fini della tutela prevista dal citato art. 1120, può essere attribuita “al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell’edificio, oppure alla presenza di altre pre­gresse modifiche non autorizzate”.

LE OPPOSIZIONI DEI CONDOMINI CONTRARI ALL’INIZIATIVA

In effetti, si registra talvolta che un condomino trasforma il balcone in ve­randa (di solito, al fine di ampliare il proprio l’appartamento) e il condominio,

o i singoli condomini in forza della legittimazione concorrente attiva di cui sono titolari - ovviamente in mancanza di una disposizione ad hoc del regolamento che vieti tale condotta - si oppongano lamentando un pregiudizio alla cosa co­mune.

La problematica de qua coinvolge, a monte, i limiti di utilizzo dell’unità im­mobiliare di proprietà esclusiva nell’àmbito del rapporto (spesso confliggente) tra singolo e collettività condominiale, sicché esulano eventuali profili edilizi o/e urbanistici (attinenti all’aumento di volumetria dell’alloggio interessato dalla realizzazione del suddetto manufatto) o eventuali violazioni delle norme in materia di vicinato (si pensi alle distanze da rispettare nei confronti dell’ap­partamento contiguo orizzontalmente o verticalmente).

Orbene, impregiudicata la facoltà - purché ne ricorrano i presupposti di cui all’attuale art. 69, comma 1, n. 2), disp. att. c.c. - di invocare una revisione delle tabelle millesimali, sovente si denuncia appunto una lesione al decoro architettonico, in quanto la “tamponatura” del suddetto balcone altera, in modo significativo, i connotati originari della facciata dello stabile condominiale (v., altres“, la remota Cass. 30 luglio 1981, n. 4861, in Foro it. Rep. 1981, voce Comunione e condominio, n. 52, secondo cui, salve limitazioni di natura pub­blicistica, la chiusura a vetri di balconi di pertinenza esclusiva deve, di norma, ritenersi consentita ai rispettivi proprietari, purché non alteri il decoro archi­tettonico dell’edificio condominiale e non rechi pregiudizio, sotto alcun profilo, agli altri condomini, ai quali deve essere comunque assicurato un pari uso del bene comune; invece, nel caso esaminato da Cass. 28 maggio 2007, n. 12491, in Immob. & diritto, 2008, n. 8, 36, sotto un diverso angolo di prospettiva, si era confermata la sentenza di merito, che aveva rigettato la domanda di ridu­zione in pristino di un balcone di proprietà esclusiva, trasformato da un con­domino in veranda, non essendo emersa dall’istruttoria la prova di un’apprezzabile limitazione all’ingresso di luce ed aria nel vano scala comune su cui affacciava il suddetto balcone).

LE INNOVAZIONI CHE RECANO DANNO ALLE PARTI COMUNI

Sul punto, anche se con riferimento al vecchio testo dell’art. 1122 c.c. ­ossia prima delle modifiche adottate dalla legge n. 220/2012 che, oggi, si ri­ferisce espressamente alle opere, sulle proprietà individuali, che “determino pregiudizio … al decoro architettonico dell’edificio” - i magistrati del Palazzaccio già ritenevano che, nel vietare le innovazioni che “rechino danno alle parti co­muni dell’edificio”, si facesse riferimento non soltanto al danno materiale, in­teso come modificazione esterna o dell’intrinseca natura della cosa comune, ma a tutte le opere che elidono o riducono in modo apprezzabile le utilità da essa detraibili, anche se di ordine edonistico o estetico, sicché dovevano rite­nersi vietate tutte quelle modifiche che comportassero un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato, puntualizzando, al riguardo, che il decoro era correlato non solo all’estetica, ma anche all’aspetto di singoli elementi o di singole parti dell’edificio che avessero una sostanziale e formale autonomia

o fossero suscettibili per sé di considerazione autonoma (v. Cass. 19 gennaio 2005, n. 1076, in Immobili & diritto, 2005, n. 7, 18: nella specie, era stato, però, escluso che l’installazione di una controporta a filo del muro di separa­zione fra l’appartamento del condomino ed il ballatoio avesse un’incidenza ap­prezzabile sull’armonia complessiva del pianerottolo, cioè sul complesso delle sue linee e delle sue forme).

Nello stesso ordine di concetti, si era affermato che l’esercizio del diritto del singolo sulle parti di sua esclusiva proprietà non poteva ledere il godimento dei diritti degli altri sulle cose comuni, come si ricavava dall’art. 1122 c.c., il quale stabiliva che ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non poteva eseguire opere che arrechino danno ad una parte co­mune dell’edificio, essendo tenuto al rispetto anche della qualità della stessa

(v. Cass. 27 aprile 1989, n. 1947, in Arch. loc. e cond. 1989, 463): infatti, il concetto di “danno”, cui la norma faceva riferimento, non doveva essere limi­tato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione della con­formazione esterna o dell’intrinseca natura della cosa comune, ma esteso anche al danno conseguente alle opere che elidevano o riducevano apprezza­bilmente le utilità ritraibili dalla cosa comune, anche se di ordine edonistico o estetico (nella specie, trattavasi del sopralzo dei parapetti del terrazzo di co­pertura dell’edificio che - secondo il giudice di merito - aveva compromesso sul piano estetico il rispetto dell’aspetto architettonico del fabbricato).

Per completezza, va registrato, tuttavia, anche un indirizzo giurispruden­ziale più permissivo (v., tra le altre, Cass. 17 ottobre 2007, n. 21835, in Immob. & diritto, 2008, n. 9, 25), nel senso che la lesività estetica dell’opera abusivamente compiuta da uno dei condomini non può assumere rilievo in presenza di una “già grave evidente compromissione del decoro architettonico dovuto a precedenti interventi sull’immobile” (nella specie, si era confermata la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di rimozione di un balla­toio realizzato da un condomino sul preesistente terrazzo, in considerazione del fatto che non tutte le modifiche compiute avevano danneggiato il decoro dell’edificio, peraltro già compromesso da precedenti interventi, alcuni dei quali opera dello stesso condomino attore).

Nella medesima corrente di pensiero, si collocano altre pronunce - v. Cass. 27 ottobre 2003, n. 16098, in Riv. giur. edil., 2004, I, 1293, e Cass. 15 aprile 2002, n. 5417, in Giur. it. 2003, 649 - ad avviso delle quali il giudice, nel de­cidere dell’incidenza di un’innovazione sul decoro architettonico, deve adot­tare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore in considerazione delle caratteristiche del singolo edificio e/o della parte di esso interessata, accer­tando anche se esso avesse originariamente ed in quale misura un’unitarietà di linee e di stile, suscettibile di significativa alterazione in rapporto all’inno­vazione dedotta in giudizio, nonché se su di essa avessero o meno inciso, me­nomandola, precedenti diverse modifiche operate da altri condomini (cui adde Cass. 29 luglio 1989, n. 3549, in Riv. giur. edil., 1989, I, 850).

LE CONDIZIONI PREESISTENTI DELL’EDIFICIO MODIFICATO

In questa diversa prospettiva, quindi, al fine di stabilire se le opere modi­ficatrici abbiano alterato il decoro architettonico di un fabbricato condominiale, devono essere tenute presenti le condizioni in cui quest’ultimo si trovava prima dell’esecuzione delle opere stesse, con la conseguenza che una modifica non può essere ritenuta pregiudizievole per il predetto decoro se apportata ad un edificio la cui estetica era già stata menomata a seguito di precedenti lavori oppure che sia di mediocre livello architettonico.

In altri termini, se è vero che un fabbricato pregiudicato sensibilmente sotto il profilo estetico non autorizza, di per sé, un ulteriore aggravio dello stesso ­ad avviso di Cass. 9 maggio 1997, n. 4086, in Foro it. Rep. 1997, voce Pro­prietà, n. 23, è irrilevante che anche altri condomini abbiano posto in essere altre opere, lesive dello stesso decoro - è altrettanto vero che non si può ra­gionevolmente parlare di snaturamento delle linee architettoniche di uno sta­bile, se il suo prospetto esterno risulta già fortemente compromesso per la presenza di una serie disordinata di manufatti non a filo con i muri perimetrali, infissi di varia natura, balconi “tamponati” con verande di ogni tipo, ringhiere con disegni bizzarri, persiane multicolori, tende con diverso aspetto cromatico, preesistenza di contatori del gas con relative tubazioni, e quant’altro.

Dunque, il concetto di decoro va correlato all’edificio nella sua attuale de­stinazione, tenendo presente il diverso uso dato o impresso dai condomini nonché gli eventuali pregressi interventi posti in essere sull’edificio per con­formarlo alla destinazione diversa da quella originaria; altro discorso attiene all’individuazione delle responsabilità in ordine alle condotte indiscriminate che hanno legittimato, di fatto, tale situazione irrimediabile di degrado a seguito di un’omessa tempestiva reazione.

Nella medesima linea di pensiero, la valutazione delle innovazioni, al fine della tutela del decoro architettonico, deve essere - sempre con i limiti di cui sopra - meno rigorosa per quanto concerne un edificio di moderna costruzione, caratterizzato dalle linee essenziali e geometriche, rispetto ad uno stabile no­bile, di architettura antica o addirittura d’epoca (si pensi all’apposizione di un manufatto nel balcone che, nei primi, potrebbe inserirsi perfettamente nella facciata dell’edificio, senza snaturarne la simmetria o addirittura apportando alla stessa un miglioramento e, nei secondi, potrebbe rappresentare il classico “pugno in un occhio”); con questo non si vuol affermare che l’aspetto degli edifici moderni non sia nella stessa misura oggetto di tutela (o, detto in altri termini, il valore “decoro” in questi casi si affievolisca), ma non si può nascon­dere che la valutazione dell’alterazione non può prescindere, in concreto, dal tipo di immobile interessato all’innovazione, nonché dalle sue peculiarità strut­turali ed estetiche.

Parimenti, un minor rigore dovrebbe correlarsi alla scarsa visibilità dell’in­novazione - si pensi all’appoggio di un condizionatore d’aria sul muro che af­faccia nel cortile interno dello stabile - poiché si tende a salvaguardare soprattutto quelle parti dell’edificio soggette all’esposizione (e, quindi, all’ap­prezzamento estetico e economico), chiudendo … un occhio per quelle sot­tratte all’altrui vista, o non agevolmente percepibili dall’esterno, anche se realizzate sulla parete esterna del fabbricato.

Come si vede, il decoro architettonico, comunque, è un concetto piuttosto elastico, per cui, lungi dal potersi ritenere oggettivo - essendo connotato di infinite sfumature, è difficilmente inquadrabile in formule definitorie - risulta continuamente sottoposto a precisazioni ed elaborazioni da parte degli inter­preti; nel contempo, è un concetto mutevole nel tempo, in quanto anche le espressioni comunemente usate - classicità, serietà, pompa, austerità, razio­nalità, dignità, signorilità, lustro, splendore, ecc. - sono strettamente legate alla comune coscienza sociale nei vari periodi storici, tenendo in considerazione l’evoluzione tecnologica in termini di comodità nel godimento della cosa co­mune, strumentale alle esigenze di comfort e di abitabilità delle singole unità immobiliari che compongono lo stabile condominiale.


di Alberto Celeste (Magistrato) © Riproduzione riservata

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